La mostra Eternal City. Roma nella collezione fotografica del Royal Institute of British Architects – curata dal faculty member della BSR Marco Iuliano con Valeria Carullo e Gabriella Musto – chiude al Vittoriano questo fine settimana. Abbiamo parlato con Marco per conoscere maggiori dettagli e il background di ricerca alla base di un progetto che, in meno di quattro mesi, ha attratto più di 200.000 visitatori.
Da dove arriva l’idea di questa mostra?
La mostra è la sintesi di suggestioni diverse, di interessi e passioni che arrivano da lontano. Ma è, al tempo stesso (o, forse, soprattutto) il prodotto di incontri. Ho avuto la fortuna, negli anni della mia formazione universitaria, di avvicinarmi a uno degli archivi fotografici più importanti della mia città. È all’Archivio Parisio, sotto il porticato di San Francesco di Paola, a pochi passi dal Palazzo Reale di Napoli, che ho imparato a maneggiare con cura i negativi su vetro e ad amare questa disciplina, grazie alla generosità dei suoi curatori, Stefano Fittipaldi e Giuliana Leucci.
Roma, laboratorio dell’immagine dagli albori del medium, ha da sempre stimolato la mia immaginazione. D’altro canto, già dalla metà dell’Ottocento, i fotografi di ogni nazionalità – all’epoca sarebbe più corretto parlare di pittori/fotografi – si davano appuntamento al Caffè Greco in via dei Condotti e sperimentavano le nuove tecniche, dai dagherrotipi ai negativi su carta. E, tra i pionieri britannici, alcuni, da James Anderson a Robert McPherson, si erano addirittura trasferiti in pianta stabile a Roma.
Naturalmente, nel corso delle ricerche che stavo svolgendo presso gli archivi del Royal Institute of British Architects (RIBA), la curiosità mi aveva spinto a cercare immagini della Capitale. Non quelle iconograficamente più note, ma soprattutto, differenti momenti storici – autori e sguardi diversi. Si trattava prevalentemente di Inglesi: accanto alle immagini del citato Anderson – capostipite di una dinastia di fotografi – si ritrovano professionisti noti come Edwin Smith, Richard Bryant, Ivy de Wolfe, Richard Pare e ‘scoperte’ come Marion Johnson (meglio nota con lo pseudonimo di Georgina Masson), Tim Benton e Monica Pidgeon. Da subito, quindi, il secondo Novecento è sembrato un periodo pieno di potenzialità e relativamente ‘nuovo’, poco indagato, a differenza della fotografia delle origini a Roma, su cui molto è stato scritto, specie in Italia.

John Donat, Pantheon, 1960 (RIBA Collections)
L’opportunità è poi arrivata un paio di anni fa. Con la creazione dei poli museali in Italia, nel 2015, è cominciata una nuova e dinamica stagione di mostre e di valorizzazione di beni culturali. Con Gabriella Musto, che dirige con impegno e competenza il Monumento a Vittorio Emanuele II, condivido sin dai tempi dell’università la passione per la fotografia, in particolare di architettura. Passione che ci accomuna anche a Valeria Carullo, curator di fotografia al RIBA; abbiamo quindi integrato le nostre competenze per la mostra, grazie al supporto al progetto che da subito ci ha mostrato la direttrice del Polo Museale del Lazio, Edith Gabrielli, storica dell’arte che ha lavorato, tra le altre cose, sui temi della fotografia. Un’interlocutrice attenta che ha supportato la nostra sfida da subito.
Un aspetto importante di questo progetto è che in Italia iniziative di qualità possono essere realizzate, se ci sono le persone e la volontà giuste. Il Vittoriano, una vera e propria ‘macchina’ per apprezzare il paesaggio urbano romano, è stata la cornice ideale per l’esposizione – quale migliore sede per mostrare a Italiani e stranieri Roma come (probabilmente) non l’avevano mai vista?
Potresti dirci qualcosa in più sulle decisioni curatoriali, ad esempio l’uso di un approccio tematico per la presentazione delle immagini?
L’aspetto curatoriale è stato sin dall’inizio in evoluzione. Personalmente credo che i progetti, siano essi di ricerca o espositivi, debbano avere una idea guida forte, basata su di una struttura chiara, cui facciano seguito scelte rigorose. Bisogna però avere la capacità e l’apertura al dialogo, al confronto; l’umiltà di saper cambiare le proprie idee, specie in iniziative complesse e aperte a tante opzioni.
La scelta di focalizzare la mostra su una collezione unica è stato un aspetto sul quale ho creduto sin dall’inizio. Conoscevo abbastanza bene l’archivio del RIBA, ma come curatori abbiamo speso tante ore a identificare, scegliere e confrontarci. In quest’ottica, ognuno ha dato il suo contributo e mi fa piacere ricordare tutti quelli che hanno arricchito il progetto: Antonello Alici, Wouter Bracke, Roberto Faraone, Alessandra Giovenco, Owen Hopkins, Martha Magrini Sissa, Paolo Mascilli Migliorini, Stephen Milner, Carla Molinari, Nick Ray, Richard Pare, François Penz e Tom True. Molti di loro hanno anche contribuito al catalogo, pubblicato da Skira.
Le 200 immagini in mostra sono una minima parte di quelle disponibili in archivio. La scelta non è stata semplice: come raccontare Roma, una città così complessa e stratificata, non solo nelle sue architetture ma anche nell’immaginario collettivo e nella produzione iconografica?
L’approccio tematico alle fotografie è stato quindi necessario e in mostra sono quattro le sezioni – Antichità, Modernità, Paesaggi Urbani e Atmosfere. Non solo: con la sospensione del tempo, che a nostro avviso ben si addice all’idea della ‘Città Eterna’, il materiale è presentato come se il tempo non fosse una variabile, dalle origini della fotografia fino alla contemporaneità, alla simultaneità. In mostra si può trovare un’immagine di metà Ottocento, accanto a una scattata qualche anno fa: analogie e contrasti visivi sono stati offerti al pubblico per le loro suggestioni e valutazioni.

Tim Benton, Palazzo della Civiltà Italiana, EUR, 1976 (RIBA Collections)
La risposta del pubblico è stata straordinaria. In meno di quattro mesi, più di 207.000 visitatori hanno varcato la soglia della mostra. Ma le soddisfazioni non si limitano ai numeri, hanno a che vedere con l’impatto delle immagini nella vita delle persone. Come nel caso di uno degli efficientissimi operai che, la notte prima dell’apertura, in pieno fermento tra un pennello, un chiodo e una cornice ha trovato il tempo di spedire un selfie con la sua immagine preferita, il Palazzo della Civiltà Italiana fotografato da Tim Benton. O la gioia di Luigi Fedullo, professionista del settore che ha stampato in maniera impeccabile gli scatti in mostra, quando ha sussurrato: ‘di fotografie per le mostre d’autore ne ho viste tante; ma in questa occasione non sono stato capace di trovare un’immagine che non sia bella.’
Alcuni commenti lasciati nel libro d’oro, poi, sono straordinari nella loro spontanea interpretazione delle tematiche. E, ovviamente, qualche (fortunamente isolato!) commento meno lusinghiero nel segnalare qualche errore, qualche omissione o più semplicemente nel suggerire degli accorgimenti. Suggerimenti che ci permetteranno di migliorare la prossima volta.
Potresti dirci qualcosa in più sulla collezione fotografica del RIBA dalla quale provengono queste fotografie?
È una domanda complessa che impone una risposta articolata. La collezione fotografica del RIBA ha da sempre esercitato su di me un grande fascino; ho avuto anche il piacere di conoscere il suo primo curatore, Robert Elwall, deus ex machina della collezione. Si tratta di un vastissimo repertorio che raccoglie più di un milione e mezzo di immagini e, infatti, Valeria Carullo ha dedicato a questo argomento un lungo saggio in catalogo.
Costituisce una delle più grandi raccolte del genere al mondo – con i fondi della Prints and Photographs Collection della Library of Congress di Washington e della Avery Architectural and Fine Arts Library della Columbia University New York – e fra le più interessanti per la fotografia di architettura; in questo senso va anche ricordato il più piccolo fondo del Canadian Centre for Architecture. Il RIBA ha una magnifica sede Art Decò a Portland Place, a metà strada tra Regent Street e Regent’s Park. Gran parte del basement ospita negativi e stampe dell’archivio fotografico. Con la collezione di disegni e la biblioteca, rappresenta, per me, il nucleo culturale della professione, forse talvolta trascurato nel difficile rapporto con la professione stessa. Oltre a Valeria mi fa piacere ricordare, tra gli altri, Jonathan Makepeace e Justine Sambrook. La collezione spazia dalle origini della fotografia – é presente anche un’immagine di Henry Fox Talbot – alla contemporaneità, dal momento che continua ad acquisire, in maniera molto selettiva, immagini dei fotografi contemporanei, come Hélène Binet, Richard Bryant e Paolo Rosselli.

Domenico Anderson, Sant’Agnese in Agone, Piazza Navona, early twentieth century (RIBA Collections)
Come si inseriscono la mostra e la ricerca sulla fotografia d’architettura nel tuo percorso professionale?
Quando dieci anni fa ho lasciato l’Italia per l’Inghilterra non pensavo che sarei potuto ritornare a lavorarci. Poi Stephen Milner, attuale direttore della BSR, mi ha invitato a far parte della Faculty of Humanities e ne sono stato onorato; ho conosciuto in questo primo anno persone straordinarie e mi piace qui ricordare Maryanne Stevens e Vivien Lovell, con cui stiamo organizzando con la BSR a Londra un convegno interdisciplinare sul Concrete, dal Pantheon alla contemporaneità. La BSR è la più importante istituzione di ricerca Britannica all’estero, dinamica, attiva e mi appassionava l’idea di poter condividere la mia esperienza, in architettura e nelle arti visive maturata in Italia e poi a Londra, Cambridge e Liverpool – e, allo stesso tempo, legare la BSR con le eccellenze italiane. Del resto le accademie straniere in Italia rappresentano un veicolo fondamentale per la diffusione e lo scambio culturale.
Ai tempi dell’università in Italia ho sperimentato un sostanziale disinteresse sui temi connessi alla fotografia di architettura. La logica universitaria italiana, nella maggior parte dei casi, è ancora legata a pratiche poco confacenti un paese moderno: c’è bisogno di una rivoluzione culturale, perché, in realtà, non c’è molta differenza tra le logiche clientelari che attanagliano il Paese e quelle di cui soffre l’accademia. C’è ancora tanto da fare in questo senso anche se, ovviamente, eccezioni ed eccellenze esistono e brillano ancora più evidenti in questo panorama. Spero, in futuro, di poter a dare un contributo al nostro meraviglioso, ma bistrattato Paese. In Italia c’è bisogno di competenza, ma anche di coraggiosi strumenti legislativi che favoriscano il merito e l’indipendenza intellettuale. Un’equazione semplice, se, nelle sedi giuste, ci sarà la volontà di mettere in discussione il sistema per migliorarlo.
Tornando alla ricerca, ho comunque perseverato, certo che si trattasse di temi importanti; e ho trovato colleghi, come François Penz (attuale Head del Department of Architecture, Cambridge University) con il quale abbiamo poi concepito tanti progetti, ad esempio la mostra su Cambridge in Concrete, articoli scientifici e condiviso un corso, The Culture of the Image, che analizza l’architettura attraverso il cinema e la fotografia.

Monica Pidgeon, Termini Station, 1961 (RIBA Collections)
La fotografia è una soglia che permette di attivare il ricordo e l’immaginazione. Solo pensare che, come architetti, la nostra conoscenza degli edifici avviene, in gran parte, attraverso un’immagine, e quanto questo aspetto influisca sul modo in cui percepiamo e progettiamo l’architettura, credo rappresenti una motivazione sufficiente per studiare la fotografia con attenzione. Internet ha modificato esponenzialmente il numero di fruitori, e ha anche drammaticamente abbassato la qualità delle immagini che inondano l’etere. Imparare a discernere è diventata una priorità del nostro tempo e, infatti, in uno dei miei corsi cerco di far riflettere gli studenti proprio su come ‘leggere’ le immagini. Già negli anni trenta, Moholy-Nagy sosteneva che gli analfabeti del futuro sarebbero stati non quelli incapaci di leggere l’alfabeto, ma la fotografia.
Ho tanti interessi di ricerca interdisciplinari tra architettura e fotografia: accanto ai già citati fondi dell’Archivio Parisio e del RIBA, mi fa piacere ricordare l’archivio, conservato a Parigi, di Lucien Hervé, fotografo prediletto di Le Corbusier; mentre sto imparando a conoscere i fondi iconografici della BSR, grazie alla guida attenta di Valerie Scott e Alessandra Giovenco. Comunque, non trascuro mai incursioni nell’architettura contemporanea. Proprio in questi mesi, infatti, sto curando una mostra su Stirling+Wilford+Associates e dirigendo la competizione per la nuova scuola di Architettura a Liverpool: un progetto molto complesso per il quale, con il supporto dell’Università, stiamo immaginando una sfida per l’architettura che verrà. Magari ne parleremo in un’altra occasione…

Marco in visita alla mostra
The BSR collaborated on this exhibition with RIBA, Polo Museale del Lazio, and the Monumento a Vittorio Emanuele II. Published by Skira, the catalogue contains, among others, contributions by Marco Iuliano (FAHL member), Stephen Milner (Director), Tom True (Assistant Director), and Alessandra Giovenco (Archivist).
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